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L'Imperatore Adriano

        e le ...granite

L’imperatore Adriano e la granita

Si narra che nel 125 d.C. la sommità dell’Etna venisse toccata dall’imperatore Adriano, che si fece ammaliare dallo spettacolo dell’alba, lasciando ai posteri la celebre frase: “Fu uno dei momenti supremi della mia vita” (Marguerite Yourcenar “Memorie di Adriano”).Egli era di ritorno dall’Egitto e voleva costatare di persona la maestosità di questo vulcano di cui aveva sentito parlare e che faceva parte del suo regno. Arrivò stanco ed accaldato , nonostante l’aria sulla vetta del vulcano fosse fresca e frizzantina. Dopo aver goduto del meraviglioso panorama si accinse ad affrontare la discesa. Il passaggio dell’imperatore non passava certo inosservato e durante il percorso di un sentiero pieno di alberi si fece davanti al cavallo dell’imperatore un pastore che inchinandosi chiese se poteva rendergli omaggio con un dono. Adriano ringraziò e accetto distrattamente la ciotola che il pastore gli offriva: un effluvio di profumi lo colpì e soprattutto fu refrigerato dal contenuto freddo della ciotola, bevve ,era ghiacciato, denso dolce e aromatico, sapeva di limoni, forse di arancia. Chiese incuriosito e grato di cosa si trattasse e il pastore rispose : “ Nenti, maistà, nivi cu’ limoni iè” …

Entusiasta Adriano ordinò al suo seguito di reperire quanta più neve possibile da portare a Roma insieme ai meravigliosi agrumi ( ma non li avevano portati gli arabi qualche secolo dopo ? beh, il piacere delle leggende è che rendono possibile ciò che storicamente non lo è…)

Pare che così , da un semplice omaggio di un pastore sia nata la granita siciliana, che nei secoli si è evoluta per raggiungere quel fresco trionfo di sapore unico quale è adesso, ma , a quanto pare a Roma , memori della granita di Adriano, chiamano ancora granita ciò che altro non è che ghiaccio tritato e sciroppo di qualcosa…la “grattachecca”…

La storia , testimoniata della granita è invece questa:

La provenienza del termine è controversa. Diversi studiosi pensano che derivi dalla parola araba "sherbeth" (bevanda fresca), alcuni insistono sulla voce turca "sharber" (sorbire), altri indicano il verbo latino ”sorbeo-es-sorbui” (sorbire o succhiare). In ogni caso sembrerebbe che il nome sorbetto venne adottato nel Medioevo come onomatopeico del suono fatto per succhiare le bevande fresche alla frutta.

Indispensabile per realizzazione queste ricette era la neve conservata in cavarne isolate con strati di paglia. È il poeta Simonide (V sec. a.C.) a raccontarci che presso i greci “la neve si seppellisce viva, perché viva si conservi e ingentilisca l’estate”. 

Il romano Seneca (I sec. d.C.) ci descrive che la tecnica per refrigerare le bevande consisteva nel farle passare più volte attraverso un colatoio d’argento o un panno di lino colmi di neve.

Durante i primi secoli del Medioevo nelle terre d'Occidente l'arte del  preparare bevande ghiacciate venne quasi dimenticata. 

Fu solo attorno al IX sec. che gli arabi reintrodussero in Sicilia le conoscenze sul come fare sorbetti. All'epoca in Oriente si era scoperto che del succo di frutta si addensava e si raffreddava se mescolato in un recipiente ricoperto esternamente di neve; si era poi anche capito che lo scioglimento del ghiaccio era rallentato con l'aggiunta del sale. Tali metodiche apportarono notevoli cambiamenti alla preparazione delle bevande fredde e dei "sorbetti graniti" (granite). 

Il Kitab al-Tabikh (1226), ricettario compilato da Mohammad Al Baghdadi, nella parte finale riporta alcune ricette di “sherbeth”.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fin dal Medioevo, in Sicilia esisteva la professione dei “nivaroli”, cioè quegli uomini che d’inverno si occupavano di raccogliere la neve sull’Etna, sui monti Peloritani, Iblei o Nebrodi, e tutto l’anno, si occupavano di conservare la neve nelle “neviere”, preservandola dal calore estivo, per poi, come nel caso dei “nivaroli dell’Etna”, trasportarla sino in riva al mare nei mesi di maggiore arsura.

La neve da “muntagna”, dalle “nivere” dell’Etna, arrivava […] in piena estate, ottima  per confezionare le granite, si vendeva “na vanedda a nivi”,.  La neve d’inverno veniva posta in grossi fossi appositamente scavati nel terreno e ricoperta di cenere vulcanica o dentro grotte vulcaniche, d’estate veniva ripresa e confezionata in “balle”, ricoperta di felci e paglia e trasportata a valle con carretti o muli in sacchi di juta .

Ancora oggi, su alcuni monti, si possono trovare le buche usate per la conservazione del ghiaccio, rifinite con mattoncini o pietra.

Tra i nobili delle famiglie patrizie, con l’avvento delle calde temperature estive, era consuetudine comprare la neve dell’Etna raccolta d’inverno dal “nevarolu”, e farla conservare in apposite “case neviere” in vista della stagione estiva.

Queste neviere private, ad uso domestico, erano ubicate in anfratti naturali e in luoghi particolarmente freschi, per riparare la neve dal caldo e conservarla più a lungo.

La neve veniva grattata e utilizzata nella preparazione di sorbetti e gelati da degustare nei momenti di calura, versandovi sopra spremute di limone o sciroppi di frutta o di fiori. 

La granita veniva preparata in diversi gusti, con il caffè e con i limoni, gelsi e mandorle della nostra zona. Infatti nel nostro territorio acese oltre alla coltivazione dei limoni e dei gelsi, sulla “timpa Falconiera” di S.Tecla (Acireale) esistevano nell’800 vasti mandorleti

Questa preparazione (che sopravvive ancora nella preparazione della “grattachecca” romana), era diffusa ancora fino al primo Novecento con il nome di “rattata” (grattata).

Durante il XVI secolo, si apportò un notevole miglioramento alla ricetta dello “sherbet”, scoprendo di poter usare la neve, mista a sale marino, come espediente per refrigerare. La neve raccolta passò così da ingrediente a refrigerante.

Nacque il “pozzetto”, un tino di legno con all’interno un secchiello di zinco, che poteva essere girato con una manovella.

L’intercapedine veniva riempita con la miscela di sale e neve chiusa da un sacco di juta arrotolato e pressato.

La miscela congelava il contenuto del pozzetto per sottrazione di calore, e il movimento rotatorio di alcune palette all’interno impediva la formazione di cristalli di ghiaccio troppo grossi.

La preparazione della granita siciliana è unica e  riesce a dare una consistenza “a fiocchi” al prodotto finito.

Impalpabile al palato essendo a base di acqua, zucchero e frutta, la granita così preparata ha soppiantato nei secoli la “rattata”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Durante la seconda metà del XVI sec. l’abitudine di fare sorbetti si affermò nelle diverse corti italiane, pare anche grazie ad alcune marchingegni messi a punto dall'architetto ed ingegnere Bernardo Buontalenti, incaricato dai Medici di organizzare “festini da far rimanere come tanti babbei gli stranieri, spagnoli per giunta”. 

È lo storico settecentesco Giuseppe Averani nel suo libro “Del vitto e delle cene degli antichi” ad informarci sulle doti del fiorentino:

«Bernardo Buontalenti, uomo di sagacissimo intendimento e nominatissimo per ingegno e per molti meravigliosi ritrovamenti, fabbricò per primo le conserve del ghiaccio».

La prima ricetta scritta del sorbetto italiano compare nel 1570 nel libro “Opera” di Bartolomeo Scappi.

Nel XVII secolo il sorbetto conquistò il palato della borghesia grazie a nuove conoscenze tecnologiche e il minor costo degli ingredienti.

Il Redi nel “Bacco in Toscana” così descrive la bevanda:

"oh come scricchiola tra i denti, e sgretola

quindi dal l'ugola giù per l'esofago

freschetta sdrucciola fin nello stomaco".

Fu il siciliano Francesco Procopio dei Coltelli tramite il “Café Procope”, aperto a Parigi nel 1686, a diffondere il consumo di sorbetti speciali presso la borghesia europea.

La fama dell'italiano divenne così grande che Luigi XIV gli assegnò l’esclusiva per la fornitura a corte di “acque gelate” (le moderne granite), “fiori d’anice” e “fiori di cannella” (simili ai gelati alla frutta). 


 

Nel corso del XX secolo, nella formula moderna della “Tradizionale Granita Siciliana” mentre la neve è stata sostituita con l’acqua ed il miele con lo zucchero, il pozzetto manuale raffreddato da ghiaccio (o neve) e sale, grazie alla tecnologia del freddo (mantecatore), è stato sostituito dalla gelatiera, consentendo di produrre quell’inconfondibile impasto cremoso, privo di aria e ricco di sapore che, grazie alle sue peculiari caratteristiche, è conosciuto e vantato nel mondo con il nome di “Granita Siciliana”.

 

Ecco una ricetta:


 

Versate in un tegame 1 lt di acqua minerale naturale (evitate l’acqua del rubinetto perché potrebbe essere troppo calcarea) e portatela ad ebollizione, dopodiché spegnete il fuoco e lasciatela intiepidire.
Spezzettate la pasta di mandorle e aggiungetela all’acqua tiepida, continuando a mescolare fino al completo scioglimento della stessa.
Ponete il composto ottenuto dentro ad un contenitore di acciaio o alluminio, e mettetelo nel freezer; dopo circa 40 minuti estraete il contenitore dal freezer e cominciate a rompere i primi cristalli di ghiaccio servendovi di una frusta di acciaio (con la quale conferirete dei colpi dall’alto verso il basso), poi riponete di nuovo il contenitore nel freezer. 

Ripetete la stessa operazione ogni 30 minuti circa, avendo cura di rompere i cristalli molto finemente ogni volta (da questo dipende il risultato finale); dopo circa 4 ore la granita sarà pronta.

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