A Catania “a santuzza” e “u nannu” singolare commistione di sacro e profano
Per i catanesi ‘a Santuzza è Agata, patrona della città sin dall’anno successivo al suo martirio, avvenuto nell’ambito della persecuzione contro i cristiani ordinata dall’imperatore Decio tra il 250 e il 251.
La fama di Agata, modello di virtù e di fermezza, ha radici lontane. Nato dalla narrazione del martirio, il suo culto si alimenta del racconto dei miracoli e dei prodigi che le vengono attribuiti. Bella e coraggiosa, forte e paziente, Agata, il cui nome in lingua greca significa “buona”, alle tentazioni terrene preferì la sofferenza del martirio, inflittole dal proconsole Quinziano.
A Catania le celebrazioni in onore della patrona hanno subito più di una modifica nel corso dei secoli. Attualmente cominciano la prima domenica di gennaio con la messa solenne nel Santuario del Santo Carcere, continuano con i giri delle undici candelore, per raggiungere l’acme dal 3 e al 5 febbraio con tre giorni di festa, nei quali si susseguono riti religiosi, cerimonie pubbliche, esibizioni musicali e spettacoli pirotecnici.
Le processioni, che si svolgono il 4 febbraio per il “giro esterno” e il 5 febbraio per il “giro interno”, vedono la partecipazione in massa della popolazione. Preceduto dalle undici candelore il corteo sfila tra le ali di folla accompagnato dalla tipica invocazione “Cittadini, viva sant’Agata!”, lanciata ad intervalli dai devoti con il sacco bianco e la scuzzetta nera, che reggono il cordone di traino del fercolo.
Le celebrazioni riprendono il 12 febbraio per l’ottava, con il rito del bacio delle reliquie in Cattedrale e un breve corteo, e il 17 agosto, quando si festeggia il ritorno delle sante reliquie da Bisanzio.
Piazza del Duomo di Catania durante le celebrazioni agatine.
Si dà spesso il caso che a Catania, come capita quest’anno, nel periodo delle celebrazioni dedicate alla Santuzza si festeggi anche il carnevale. La coincidenza delle due feste origina una commistione di sacro e profano che può apparire imbarazzante. La personificazione del Carnevale è‘u Nannu. Lunga è la sua storia, che affonda le radici nella cultura greco-romana. Breve è la sua vita che si consuma tra l’Epifania e il martedì che precede la Quaresima.
Nell’immaginario ‘u Nannu è un fantoccio di età avanzata, tanto goffo quanto allegro. Indossa berretto, cravattone, panciotto, soprabito, brache, scarpe. È una maschera sguaiata seguita da un popolo mascherato che sgomita, sbraita e balla.
Il carnevale può cadere addirittura nel giorno stesso della ricorrenza agatina, come avvenne nel 1764 quando le autorità ecclesiastiche preferirono celebrare in chiesa la festa religiosa, per lasciare le strade e le piazze alla festa profana del popolo mascherato.
Se il carnevale era vasciu, e dunque cadeva in prossimità della ricorrenza religiosa, le autorità ecclesiastiche ponevano alcune limitazioni ai festeggiamenti profani, che invece prendevano il via senza restrizioni se il carnevale era autu, e dunque cadeva più avanti rispetto alla festa di Sant’Agata.
Sul carnevale catanese nel secolo della ricostruzione seguita al terribile sisma del 1693, offre più di un ragguaglio un appassionato cultore di storia e tradizioni locali, Guglielmo Policastro (Catania 1881-1954), che alla festa profana dedicò alcune pagine del suo "Catania del Settecento" edito nel 1950. Fonte particolarmente accreditata di notizie sul carnevale in Sicilia è Giuseppe Pitré (Palermo 1841-1916), che alla festa profana dedicò il primo capitolo del suo "Usi e costumi del popolo siciliano" edito nel 1889.
Foto dal web
Nella Sicilia del secolo XVI l’usanza di costose feste con maschere, balli, rappresentazioni, giostre, tornei, carri con musici e cantori, è tramandata dai diaristi cinquecenteschi. Ne era assoluta protagonista la nobiltà, mentre al popolo minuto si offriva, ove logisticamente possibile, solo l’opportunità di assistere. Il travestimento dava luogo a condotte sregolate, anche da parte dei chierici, e a deplorevoli abusi, che le autorità laiche e religiose tentavano di contrastare con bandi ed editti.
Con un editto del 25 gennaio 1518 il Capitan Giustiziere di Palermo proibiva il lancio di arance e, soprattutto, il lancio di canigghia (cruscherella) e pruvigghia (polvere di gesso) miste a un liquido di dubbia provenienza, consentendo solo alle donne il lancio di acqua pulita dalle finestre. In tempi successivi si aggiunse il lancio di uova e di ciottoli gessati.
Nella Catania cinquecentesca l’usanza di celebrare il carnevale è attestata, oltre che dall’esistenza di canti carnascialeschi, dall’editto del vescovo Nicola Maria Caracciolo (Napoli, 1537-1568), lo stesso che nel 1556 chiamò i Padri Gesuiti all’insegnamento dottrinale nella città etnea. Con l’editto, conservato negli Atti della Curia Arcivescovile (1553-1554), il vescovo lanciava la scomunica contro coloro «i quali con pocu rispectu di la honestà e religione ecclesiastica, presumino vestirsimascari con habiti monachali e di altri religiosi seculari e regulari etiam di donne monachi».
Nell’isola l’uso di indossare le maschere ebbe ampia diffusione sotto il vicerame, durato dal 1611 al 1616, di Pedro Téllez Girón, III duca di Osuna (1574-1624). Osteggiato da una larga parte dell'aristocrazia a Palermo, come poi a Napoli dove fu viceré dal 1616 al 1620, in ossequio all’antica massima delle tre F (Feste, Farine, Forche) indispensabili per governare, il duca non esitò a cercare l’appoggio del popolo minuto, facile da distrarre con il liberatorio divertimento di una festa in maschera.
Il baccano del Carnevale soleva cominciare dopo la festa della Epifania.
«Ddoppu li Tri-Rrè, tutti olè», diceva un antico proverbio.In seguito al sisma del 1693, in Sicilia il carnevale ebbe inizio solo dopo l’11 gennaio, giorno tristemente legato al disastroso evento. Annunciata dal clamore di trombe e corni suonati da giovani popolani, la festa prendeva il via per durare sino alla quaresima.
I quattro giovedì che precedevano il carnevale avevano un nome allusivo:
il primo, jòviri (o jovi) di li cummari, era dedicato al desinare in onore del comparatico; il secondo, jòviri di li parenti, era destinato al desinare tra congiunti; il terzo, jòviri du zuppiddu, dove lo zoppetto potrebbe essere un tipo di satiro, vedeva la distribuzione di cibo ai poveri; il quarto, jòviri grassu o lardaloru, era il giorno nel quale si consumava la minestra di legumi e ortaggi arricchita da abbondante lardo.
Ritratto ad olio di Pedro Téllez-Girón y Velasco, III duca di Osuna, realizzato nel 1615 da Bartolomé González y Serrano, pittore alla corte di Filippo III
A Catania, come in altri centri dell’isola, il quarto giovedì era anche detto jòviri di li sdirri. Per quanto oscura rimanga l’etimologia della parola sdirri, si ritiene essere una forma corrotta del francese dernier, utilizzata anche a mo’ di prefisso come nel Modicano, dove consdirrumìnica, sdirrilùni, sdirrimarti, si usava indicare la domenica, il lunedì e il martedì che precedevano la quaresima.
Il tripudio e il furore popolare esplodevano senza freno nelle vie e nelle piazze durante le giornate che preludevano alla fine della festa,‘i tri ghiorna di lu picuraru. Il nome trae origine da una remota tradizione, legata al tempo degli Ebrei, quando l’ultimo giorno di carnevale cadeva di sabato. Secondo il racconto un pecoraio che, portando sul collo il capretto regalatogli dal padrone, si dirigeva verso casa per trascorrere in famiglia l’ultimo giorno di carnevale, avrebbe incontrato Cristo il quale, essendo già prossimo il tramontare del sabato, gli avrebbe concesso altri tre giorni di festa.
Il palazzo del Senato di Catania e il palazzo dell’Università di Catania, nelle incisioni di Antonio Bova, 1761
Le famiglie di condizione agiata usavano trascorrere i tre giorni del festino banchettando con i congiunti più cari.
C’era chi, nel consumare a tavola pranzi e cene, non dimenticava i poveri che in quel giorno erano privi di cibo. La giornata si consumava tra allegre e spensierate conversazioni, giochi di società, balli per i più giovani, sciogghilingua e miniminagghi, con preferenza per gli indovinelli a doppio senso.
Il popolo usava girovagare mascherato riempendo le vie e le piazze di chiasso, risate e diverbi che spesso finivano in furiosi litigi e botte da orbi. Per molti il mascheramento era una favorevole occasione per concedersi ogni libertà.
I mascarara (fabbricanti e venditori di maschere) offrivano tutto ciò che il popolo minuto poteva facilmente acquistare per il travestimento: mascari di cartone, cappeddi di carta, birrittuna da Pulcinella, birriuna (turbanti).
Il carnevale della Catania settecentesca era ricco di maschere che agivano nelle vie e nelle piazze, alcune singolarmente e altre in gruppo. Le più popolari erano la madre di carnalivari, la vecchia che fila, la zingara, la balia, interpretata da un uomo travestito da donna con un pupazzo di stoffa tra le braccia, lu-mortu-portalu-vivu, interpretata da un uomo alto ed aitante che esibiva alla cintura il cranio in maschera di un morto. C’erano poi i travestimenti ispirati agli animali, domestici e selvatici: l’orso ballerino accompagnato dal domatore, lo scimmione saltellante, l’uomo con la testa d’asino, l’oca con sottana bianca legata al girovita e mantella dotata di un lungo becco azionato da cannucce in modo di aprirsi e chiudersi imitando il verso animale.
Numerose erano le satiriche parodie di condizioni sociali: lu baruni, lu dutturi, Masi lu cantastorie, lu ‘ndivina vinturi, lu scippa janghi, lu cocu, lu piscaturi e molti altri mestieri. Diffuse in tutta l’isola, alcune di esse avevano particolari connotazioni nei diversi centri. La maschera del barone catanese, impettito e sussiegoso, noncurante di fare da bersaglio al lancio di arance e oggetti, era spesso accompagnata da Masi, il servo scemo che reggeva in mano una lanterna spenta.
La maschera del dottore, con cappello a tre punte, alto colletto, cravattone e panciotto, più che satireggiare l’arte medica, a Catania sbeffeggiava l’ambiente dell’Università. Non meno irriverente era la maschera del cavadenti che, con abito a coda di rondine e tuba, armato di grosse tenaglie da fabbro, girovagava in cerca di vittime sulle quali simulare un intervento.
Alcuni travestimenti avevano come principale scopo quello di sbeffeggiare i passanti. Riconoscibile per il copricapo di carta e il grembiule bianco, il cuoco faceva spumeggiare con il frullino un miscuglio di acqua e sapone nella sua casseruola di rame, per buttarlo in faccia ai passanti e poi darsi alla fuga. Protetto da un ampio e lungo cappotto, il pescatore portava con sé la cimedda (canna da pesca) con una cudduredda (ciambella) penzolante, da utilizzare a mo’ di esca per attirare i golosi e sbuffare sul viso dei malcapitati una boccata di calia (ceci abbrustoliti) masticata.
In Sicilia, inoltre, accadeva spesso che le maschere si unissero in frotta come un corpo di attori, per procurarsi con la questua il danaro da spendere poi nella taverna. A Catania e di Mascalucia era radicata l’usanza ricordata dal Pitré con il nome dicarnalivarati. Erano recite di farsette in lingua siciliana allestite da compagnie di comici improvvisati, spesso premiati dagli spettatori con doni in natura quali vino, carne e salsicce.